Spesso ci sentiamo dire, forse con troppa retorica, che non serve immaginare luoghi esotici e lontani per trovare qualcosa di straordinario. Ed è quello che mi è successo quest’estate, quando ho deciso di partecipare ad ‘Io ci sto’, il campo di volontariato che da qualche anno Padre Arcangelo Maira organizza per offrire sostegno ai migranti impegnati nelle nostre campagne. Raccontare qualcosa di straordinario non è mai facile e, d’altronde, potrei dirvi quello che ogni estate giornali e TV raccontano nei loro servizi: le paghe da fame, le baracche fatte di materiali di riciclo, le violenze dei caporali, la carenza di acqua potabile e quant’altro. Ma, così facendo, non renderei giustizia a quello che ho visto e vissuto al Ghetto: chi ha letto o sentito di questo posto è generalmente portato a considerarlo un nonluogo, qualcosa che nasce e svanisce in pochi mesi per soddisfare semplicemente una necessità, la raccolta stagionale nei campi. Ed era in parte così anche per me. Per far crollare quest’illusione il Ghetto, ed in particolare la gente che ci abita, ha impiegato appena un paio di giorni. E così, ogni volta che ci torno dalla fine del ‘Io ci sto’, mi chiedo quanto sia inopportuno il nome ‘Ghetto’, un nome che richiama un forte senso di chiusura e di pericolo rispetto a chi dentro al ghetto ci vive. A Rignano, invece, è sufficiente abbassare, anche solo un po’, le proprie barriere per essere travolti da un’accoglienza davvero rara per il mondo di oggi, che ti porta subito a sentirti a tuo agio in quel groviglio di case, odori e bambini, circondato da ettari ed ettari di niente. Poi passano i giorni e, quando ad ogni tramonto riprendi la strada di casa, arrivi a chiederti se il vero pericolo non sia lì fuori, oltre quella strada sterrata che collega il Ghetto di Rignano al resto del mondo. Ciò che alla fine ti resta sono gli sguardi, in cui hai letto un intreccio di storie incredibili eppure così vive da non poterle lasciare scivolare via. E ripensi a quanta dignità trasparisse dagli occhi di Vasilij e dei suoi compagni di sventura, una dignità ferita dalla barbarie di un caporale, rumeno come loro, e dalla sfiancante fuga a piedi da Sannicandro fino a San Severo, ma ancora vigorosa e pura tanto da riuscire ad attendere, nonostante il lungo digiuno, che tutti fossimo seduti a tavola per iniziare a mangiare. Poi ti tornano alla mente le decine di ragazzi che hanno affollato la scuola d’italiano: le loro smorfie davanti ad un verbo irregolare, gli accenni e gli sguardi d’intesa mentre li segui nello svolgimento di un’esercitazione ed, infine, i sorrisi per un complimento ricevuto. E la lista sarebbe ancora lunga: Jasmine, uno scricciolo capriccioso ed adorabile di soli 2 anni; Fabrice, che mi si avvicina con uno stile che ricorda vagamente Mario Balotelli; Marian e Maurio, divenuti, per uno strano scherzo del destino, compagni di banco alla S. Chiara. E tutti gli altri, anche quelli di cui non ho mai saputo od imparato il nome, ma che non mi hanno mai negato un saluto e a cui spero, col mio sguardo, di aver lasciato un granello di me.

Roberto D’Amato

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